La storia di mio cugino Franco Zavan
Una storia vera
Io sottoscritto Zavan Franco, nato a Borbiago di Mira il 09/04/1926 e residente in Via Fornase n. 99 di Spinea, Venezia desidero offrire questo mio scritto a memoria e testimonianza delle prove particolarmente dure e drammatiche legate all'ultimo conflitto mondiale.
Comincerò col riportare un breve articolo di giornale uscito nel 1990 sulla rivista mensile "La voce di Fiume" che raccoglie corrispondenze, ricordi, rimpianti di chi visse fino alla seconda guerra mondiale nella città italiana di Fiume, oggi Rijeka (Croazia). La vicenda raccontata risale al 1945 e riguarda direttamente il sottoscritto.
Ecco il testo dell'articolo:
Insubordinazione
Durante una ispezione eseguita dal Feldwebel Wolf, questi trovò, in una postazione, che il Polizisten di guardia, Franco Zavan, beatamente dormiva; immediato rapporto e subito incarcerazione, con l'accusa di insubordinazione, nella prigione ubicata in un locale retrostante al Comando.
Naturalmente si mosse subito "un comitato di salvezza" o, meglio, un gruppo di buoni amici, in primo luogo la nostra meravigliosa e buonissima Maritza, la quale subito procurò una divisa di ferroviere (lo Zavan era stato effettivamente aiuto macchinista alle ferrovie); per quanto riguardava la preparazione di un documento necessario per un eventuale controllo, collaborarono: Uicich, Dodich, Superina, Pastorcich e qualche altro.
Il Dodich era in possesso di un documento d'identità (Ausweis) rilasciatogli dal Silurificio per esentarlo dal servizio militare, che poi non gli era servito nulla in quanto preso subito dal Freiwilliger Bataillon. A questo Ausweis sostituirono la foto del Dodich con quella dello Zavan, poi, lavorando con certosina pazienza per diverse ore di notte, con un piccolissimo scalpello di legno fecero il timbro forato sulla foto e poi con una matita copiativa allungarono il timbro già esistente sulla foto nuova. Certamente che si erano messi d'accordo: se nella fuga, lo Zavan fosse stato preso avrebbe detto di aver trovato l’Ausweis e il Dodich di averlo perduto non sapendo dove.
Evasione notturna dello Zavan dal carcere, subito accompagnato dalla Maritza, per sentieri solo a lei conosciuti, fino alla stazione di Mucici, dove egli immediatamente prese posto nella locomotiva, dato che il treno era appena arrivato. Una cosa imprevista successe; difatti dal treno scese il maggiore Von Kleist (quello che aveva sorpreso Zavan a dormire) e la Maritza per poco non svenne; fortuna che il Maggiore non si accorse di nulla, così, l'evasione andò a buon fine, grazie agli amici sopra citati e grazie a quella ragazza bella e buona e che ci voleva bene.
Finita la guerra incontrai Zavan a Fiume in Sala Bianca, poi anche egli prese la via dell'esilio e sembra sia andato a Mira, in provincia di Venezia, paese originario dei suoi.
Questo è il fatto che volevo portare a conoscenza, ma non è l'unico. Cosa ci facevo io a quell'epoca a Fiume?
Per chiarire meglio la storia bisogna risalire a tre anni prima, nel 1942, quando appena sedicenne lasciai la mia famiglia ed il mio paese d'origine perché assunto nelle Ferrovie come aiuto macchinista presso il compartimento di Trieste, con posto di lavoro a Fiume. Qui fui ospitato dagli zii che mi accolsero nella loro casa come un figlio. Zia Bianca faceva scarpe e zio Angelo il vigile urbano. C'erano anche due cugini, Mirella e Romano, con cui passavo un po' del mio tempo libero. Dei due anni trascorsi in quella città, ricordo momenti di nostalgia e di malinconia per la lontananza dei genitori, di spensieratezza quando con gli amici ci tuffavamo nelle limpidissime acque del mare.
Momenti anche di paura. Essendo in pieno svolgimento le operazioni di guerra, col tipo di lavoro che svolgevo ero particolarmente esposto agli attentati che i partigiani compivano per sabotare i collegamenti ferroviari in una zona occupata dall'esercito tedesco. Quel giorno del 1942, mentre viaggiavo in compagnia del macchinista e del capotreno su un "treno civetta", così detto perché precede un treno viaggiatori ed è composto della sola locomotiva e tre carri merci, fra le stazioni di Giordani e Sappiane, saltammo in aria a seguito della esplosione di alcune mine poste sui binari. Dopo il deragliamento, la locomotiva si adagiò su un fianco andandosi a fermare in fondo alla scarpata. A parte qualche ammaccatura, non avevo riportato gravi conseguenze, come pure gli altri due colleghi, ma i partigiani di Tito, appostati nel bosco, stavano mitragliando nella nostra direzione. Io rimasi nascosto in un angolino della locomotiva, paralizzato dal terrore per la probabile fine imminente, ma anche assalito dall'idea di provare un disperato tentativo di fuga nella direzione opposta a quella da cui provenivano gli spari. La fortuna volle che una colonna militare tedesca proveniente da Fiume e diretta a Trieste, stesse transitando da quelle parti e, attirata dal fragore delle esplosioni e degli spari, intervenne mettendo in fuga i partigiani.
Il capotreno era stato prelevato e trascinato via dai partigiani stessi, il macchinista, colpito da un proiettile alla coscia fu portato all'ospedale mentre io fui accompagnato alla Direzione Compartimentale di Trieste per relazionare sull'accaduto.
Verso la fine del 1944 fui chiamato a fare il militare di leva e, interrotto il rapporto con le ferrovie, presi servizio sempre a Fiume sotto il comando militare tedesco. A questo periodo risale l'episodio di "Insubordinazione" sopra riportato, quando, sopraffatto dalla stanchezza, fui sorpreso addormentato al mio posto di sorveglianza.
Come ricorda il commilitone Aldo Cobelli, l'autore dell'articolo, quella fuga, avvenuta il 25 marzo 1945, mi portò a Mira dove risiedevano i miei genitori, ma arrivarci fu un'impresa tutt'altro che facile. Raggiunsi il mio paese con mezzi di fortuna: treno, poi camion, poi ancora treno oltre ad estenuanti trasferimenti a piedi. Ma una volta a casa non era finita!
Pensai subito che non sarebbe stato prudente restare nella casa dei miei: se mi avessero cercato per via dell'evasione quello sarebbe stato il primo posto per farlo. Così chiesi ospitalità ad una famiglia della zona, quella di Maria, fidanzata di Bruno, uno dei miei fratelli.
Sembrava che piano piano le cose stessero prendendo una piega relativamente tranquilla, ma non era così.
Esattamente un mese dopo la fuga da Fiume, nella notte fra il 24 ed il 25 aprile (giorno della Liberazione), un gruppo di partigiani appostati sotto al ponte dell'autostrada A4, dove scorre la canaletta che costeggia ancora oggi via Fossa Donne, tesero un'imboscata ad una truppa di tedeschi e di italiani della Decima Mas che battevano in ritirata. Ne scaturì una violenta sparatoria in cui persero la vita alcuni partigiani. La rappresaglia dei tedeschi fu immediata: fecero un rastrellamento di uomini che si trovavano nelle case della zona, tra i quali anch'io, e ci condussero sotto il cavalcavia che porta verso Borbiago scavalcando l'autostrada, a circa ottanta metri dal luogo del conflitto a fuoco avvenuto poco prima.
Dopo aver controllato e sequestrato i documenti che avevo, una tessera delle Ferrovie dello Stato, mi fecero spogliare, mi colpirono alla nuca con il calcio di una pistola e mi fecero accostare assieme agli altri al muro di sostegno del cavalcavia, con le mani in alto. In quei momenti ti senti il sangue pulsare forte nelle vene e vedi scorrere tutta la vita davanti agli occhi in pochi istanti, sentendo la fine imminente.
A quel punto, però, un tenente della Decima Mas mi chiamò e mi chiese di riconoscere le altre persone che erano al muro, poi mi disse che sarei stato libero se avessi collaborato con alcuni militari a ripescare i corpi dei partigiani rimasti uccisi che galleggiavano nella canaletta.
Raccolsi tutte le mie forze e mi feci coraggio per trascinare quei pesantissimi corpi fradici. Recuperai cinque corpi: fra di essi non riconobbi nessuno, probabilmente erano giovani di paesi vicini.
Per scongiurare altre imboscate, due delle persone messe al muro, i fratelli Gino e Sante Niero, furono usati come scudo umano e dovettero precedere la truppa a piedi con le mani in alto, fino a Venezia.
Io fui lasciato libero e tutta la notte vagai scioccato per la campagna.
Al mattino del 25 aprile tornai a casa e raccontai ai miei quanto era accaduto; Bruno disse di aver sentito degli spari ma di non aver capito di cosa si trattasse.
In quel giorno tutti festeggiavano la Liberazione mentre io ero così spaventato che continuavo a nascondermi ovunque. Per molti giorni continuai a vagare per i campi evitando di tornare a casa, senza rendermi conto che la guerra era veramente finita.
Riavutomi da questa brutta esperienza tornai a Fiume presso gli zii ma pochi mesi dopo si doveva scegliere se prendere la cittadinanza jugoslava oppure rientrare in Italia. Fu così che molti italiani di Fiume diventarono profughi, "costretti" ad abbandonare le loro case e le loro cose. Lo zio Angelo ebbe un posto di vigile urbano a Cremona e lì si trasferì con la famiglia. Io tornai a Mira con i genitori e i fratelli.
Questi ricordi li ho custoditi per anni in un angolo della memoria; solo raramente confidai ai familiari alcuni fatti che segnarono quel periodo della mia vita. Finché, nel 1990 uscì l'articolo su "La voce di Fiume". Leggendolo fui preso da grande emozione e decisi che certe cose non andavano nascoste bensì raccontate, anche per far capire come sia importante non arrendersi neppure di fronte a certe difficoltà apparentemente insormontabili che la vita ci riserva.
Dopo qualche tempo, mi misi in contatto e invitai a casa mia Aldo Cobelli. Seduti comodamente a tavola degustando dei buoni piatti e del buon vino, ricordammo col caro amico i pericoli e le speranze dei tempi passati assieme.
Qui finisce la testimonianza di vicende che hanno segnato non solo la mia vita ma anche quella di molte persone che, come me, furono coinvolte dalla tragica esperienza della guerra.
Vorrei concludere con due considerazioni, la prima di carattere personale, intimo, la seconda di carattere più generale.
In queste vicende drammatiche sono passato fra pericoli più disparati, fra paure, ansie e speranze. Tuttavia, anche nei momenti più bui, ho avuto sempre chiara la percezione che lassù Qualcuno vegliava su di me proteggendomi. E quel 25 marzo 1945, il giorno dell'evasione, non è un giorno qualsiasi per noi di Borbiago. Il giorno 25 marzo, infatti, al mio paese si fa festa in onore della Madonna del Santuario, alla quale ero e sono anche oggi devoto, come del resto molti compaesani.
La seconda considerazione è, se possiamo dire, una espressione di amarezza, di rammarico: devo purtroppo constatare che la memoria storica di questi fatti si va sempre più assottigliando. Con la scomparsa delle persone che hanno vissuto quel periodo non rimane più nessuno a raccontare ai giovani che cosa significa, di quanto dolore e di quanti lutti sia portatrice la guerra e quanto siano importanti, invece, valori come la pace, la tolleranza, la solidarietà.
Se quello che ho raccontato potrà servire a dei giovani che vorranno ascoltare o a qualcun altro, io sarò la persona più felice. Da parte mia, mi ritengo già soddisfatto di essere riuscito, alla mia età, a raccogliere nella presente queste esperienze di vita e di aver rivissuto, ancora una volta, forti emozioni.



Spinea, 10 Settembre 2007
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Foto scattate il 26 settembre 2008 che mostrano l’obelisco eretto nei pressi del cavalcavia di via Botte a Borbiago di Mira dove sono riportati i nomi dei partigiani caduti nei tragici fatti narrati nella storia di mio cugino Franco Zavan.
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